Chiesa del Gesù - Roma, Commento IV Domenica del Tempo Ordinario

IV Domenica del Tempo Ordinario [A]
Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12
Il discorso che Gesù fa sul monte nel vangelo di Matteo si apre con una espressione scandita per nove
volte: “Beati, felici voi”.

Sono nove beatitudini che risuonano però in un contesto di precarietà, di fragilità e di contraddizione.

Per Dio sono beati coloro che il mondo considera sfortunati, illusi o sciocchi.

Dio si occupa della felicità di coloro che il mondo scarta o verso cui è indifferente.

Eppure, queste nove situazioni sono la testimonianza che può esserci un altro modo di essere uomini per costruire un mondo fatto di pace, di sincerità, di giustizia, di cuori puri.

Le nove beatitudini di Matteo si riassumono nella prima: “Beati i poveri in spirito”; mentre le altre sono un corollario di questa.

Non ci è chiesto di cercare la povertà per se stessa, ma di seguire e unirci a Cristo povero; a Cristo mite, a Cristo puro di cuore, a Cristo assetato di giustizia.

La povertà in spirito è il non avere una propria sicurezza, è una disposizione interiore che impronta il proprio agire in ogni circostanza all’avere fiducia nel Signore, perché si è sperimentato il suo amore.

La povertà spirituale è l’ammettere di essere bisognosi, di non essere autosufficienti, di dipendere da Dio.

Questo atteggiamento di sincera umiltà interiore è quello che “giustifica” l’uomo e lo pone in buona relazione con Dio.

Povero in spirito è chi attende con mitezza, talvolta anche nel pianto, la salvezza solo da Dio, chi ha animo retto ed intenzioni pure, chi lavora per la giustizia e per la pace.

Le beatitudini sono di coloro che vivono avendo vicino a sé il futuro di Dio.

Ovvero, quel futuro che Dio promette loro, lo stanno già vivendo, perché trovano Dio vicino in ogni situazione e prova della vita.

Le beatitudini sono l’esperienza di essere amati e che Dio è veramente l’Emmanuele, il Dio-con –noi.

È solo questo, in definitiva, il vero motivo della beatitudine: essere uniti a Cristo povero, afflitto, mite, affamato, assetato di giustizia, puro di cuore, pacificatore, perseguitato, per essere con lui risorto, erede del Regno, consolato dal Padre, erede della terra, saziato di beni celesti, custodito dalla misericordia, nella contemplazione Dio come figlio amato.

La profezia di Sofonia è anch’essa una parola dura alla pari del discorso della montagna, ma aperta alla speranza per il “piccolo resto” fedele.

Di nuovo è presentata la debolezza e la fragilità come via per sperimentare l’amore di Dio, che ha scelto di farsi povero e umile per incontrarci sulle nostre strade.

Sofonia non si accontenta di denunciare l’idolatria, il formalismo religioso e le ingiustizie sociali, ma ne denuncia soprattutto le cause: la mancanza di fede e l’orgoglio.

Le parole severe della sua profezia sono la commiserazione per coloro che credendosi grandi, scaltri e pieni di sé non abitano l’amore di Dio e pertanto non lo trovano vicino nella loro vita.

Il regno di Giuda sta correndo verso la sua rovina, ma per il profeta Sofonia la minaccia assira è solo l’anticipo di una minaccia molto più temibile: la venuta del “giorno del Signore”.

Ma, nonostante tutto, il profeta continua a sperare nell’avvenire.

La nazione è ormai ridotta ad un resto e priva di splendore, eppure il profeta vede, proprio nei poveri, la capacità di cercare il Signore, di continuare l’opera di salvezza essendo, questo piccolo resto, il popolo santo di Dio che persevera nel suo amore.

È attraverso questi poveri che cercano la giustizia e attraverso l’umiltà che nascerà la nuova umanità: “un popolo umile e povero”, ma totalmente dedicato alla realizzazione del grande disegno d’amore che Dio vuole costruire con l’uomo.

Il problema, anche per Sofonia, non è essere povero, ma “cercare” il Signore nella giustizia e nell’umiltà.

Cercare indica un movimento di tutto se stesso verso quel bene, indica anche il riconoscimento che quel bene non lo si possiede ma lo si deve desiderare.

Lo stesso messaggio lo troviamo in san Paolo: ai Corinti divisi dal loro orgoglio l’apostolo ricorda che Dio li ha chiamati in Gesù Cristo senza alcun loro merito, per dimostrare che la salvezza viene esclusivamente da Dio per mezzo della povertà di Cristo.

La parola evangelica è “parola della croce”: quando è comunicata a “coloro che sono sulla via della perdizione”, è presa come “stoltezza”, ma “per coloro che sono sulla via della salvezza” è “forza di Dio”.

Al centro del mistero cristiano c’è un Dio che scandalosamente vuol essere vicino all’uomo fino a raggiungere il livello più basso, la morte dello schiavo.

La beatitudine è nella figura del Cristo crocifisso, scandalo ed assurdità per giudei e greci, ma forza salvifica e sapienza autentica per coloro che credono, perché è proprio in questo atto supremo della libertà e dell’amore di Dio che si attuano la salvezza e la liberazione dell’uomo.

Solo l’amore è capace di capire la croce come scelta gioiosa e liberante.

Vantiamoci solo nel Signore che ci ha fatto suoi figli, amando la nostra fragilità e debolezza perché amata, assunta e redenta da lui.

Questa solo è la nostra felicità e beatitudine.

Fonte:http://www.chiesadelgesu.org/

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