MONASTERO MARANGO," Le beatitudini sono un'alba di speranza per tutti "

4° Domenica del Tempo Ordinario (anno A)
Letture: Sof 2,3; 3,12-13; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12a
Le beatitudini sono un'alba di speranza per tutti 
1)Sofonia predicò a Gerusalemme tra il 640 e il 630 a.C., poco prima che iniziasse il ministero di
Geremia. Non erano tempi facili. Gli Assiri avevano invaso e saccheggiato una parte del territorio; re empi, come Manasse e Amon, avevano favorito il disordine religioso e l’idolatria. E il profeta non si dimostrò certamente un profeta di corte: le sue parole hanno la forza distruttrice del fuoco: «Eliminerò l’uomo dalla terra. Oracolo del Signore. Stenderò la mano su tutti gli abitanti di Gerusalemme; eliminerò da questo luogo il nome degli addetti ai culti insieme ai sacerdoti: punirò i capi e i figli di re».
Per Sofonia solo il povero ha la speranza di essere salvato: «Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore». Cercare il Signore è cercare la giustizia, non è uscire dal campo del mondo per rifugiarsi in cieli lontani e in improbabili paradisi. Questa giustizia riveste un carattere religioso, esprime una fede viva. Non si può trovare Dio se non ci si preoccupa del proprio fratello, soprattutto del più povero. Sofonia supera gli angusti limiti del linguaggio quotidiano. Con lui, sembra per la prima volta, la parola «povertà» non caratterizza più soltanto uno stato sociale, ma esprime il fondo stesso dell’esperienza religiosa. Il credente non deve solo preoccuparsi dei poveri, essere a loro fianco nelle loro battaglie, ma deve essere lui stesso un povero, un uomo di desiderio, uno che non cerca il proprio appagamento nell’idolo del potere e dell’avere, ma nell’eseguire il comando del Signore.

Farò restare in mezzo a te, Israele, un popolo umile e povero.
E’ in mezzo ai poveri che Sofonia sembra aver ricevuto l’accoglienza più favorevole. Egli deve aver trovato in essi una capacità di cercare Dio, un tale bisogno di felicità, una così profonda umiltà - che è anche consapevolezza del proprio limite – che li rende sicuri di poter attendere solo da un Dio il compimento della loro speranza.
Si tratta di un popolo povero in quanto umile, ma anche in quanto piccolo, perché non rappresenta che un «resto».
Come sarà questo popolo umile e povero?
Sarà un popolo che vivrà in un totale abbandono nelle mani del Signore. Non troverà vanto negli strumenti mondani della forza, del denaro, del potere, ma confiderà solo nel nome del Signore. Il nome di «colui che è presente» dice di un Dio per sempre solidale con il suo popolo, nella buona e nella cattiva sorte, nei giorni lieti come in quelli della tribolazione.
Da questa intimità con il Signore deriva tutto il resto: «Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta» (Sof 3,13). La fede, prima di essere impegno etico, dono di sé agli altri, è dono di comunione, relazione sponsale, reciproca accoglienza, estasi d’amore.

L’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinti, parte da una constatazione: «Non ci sono tra voi molti sapienti, molti potenti, molti nobili». La maggior parte della comunità era formata da povera gente, da umili artigiani, facchini, scaricatori, schiavi. In essa solo poche persone possedevano la potenza, l’influenza, la forza; pochi appartenevano alla borghesia urbana. In questo senso la comunità cristiana di Corinto costituiva una fedele immagine delle prime chiese, nelle quali i fedeli provenivano soprattutto dalle classi più umili e diseredate.
A questi cristiani Paolo vuole risparmiare la tentazione di cercare appoggi in una sapienza fin troppo umana, quasi disprezzando la loro umile condizione e considerandola semplicemente come una vergogna.
Invece, la loro oggettiva debolezza poteva diventare un elemento di forza: Dio aveva scelto ciò che è nulla affinché nessun uomo potesse prendere pretesto dai suoi doni naturali – sapienza, potenza, rango sociale – per inorgoglirsi davanti a lui.
Ma c’è anche una ragione positiva: quelli che il mondo disprezza, e che Dio ha scelto per ridurre al nulla ogni pretesa umana, hanno ricevuto una nuova esistenza, infinitamente più grande di una semplice esistenza umana. Essi sono «in Gesù Cristo», il quale è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Allora, in Cristo Gesù, possiamo anche noi vantarci, e operare il bene, percorrendo vie di riconciliazione e costruendo sentieri di pace, rendendo un servizio all’uomo che è vero culto a Dio, perché in ogni cosa Dio sia santificato. Non c’è nessuno di così povero che non possa compiere un gesto d’amore verso un altro povero.

Beati i poveri in spirito.
Qualcuno si è chiesto se le beatitudini evangeliche rappresentano qualcosa di diverso dalla compensazione illusoria degli impotenti, dei rassegnati, di tutti coloro che dubitano dell’uomo e si compiacciono del suo avvilimento. Una religione che proclama «beati i poveri» non è forse una religione inutile, e anzi dannosa? E dire «beati quelli che sono nel pianto, beati i perseguitati», non è forse il sintomo più chiaro di quella strana malattia in cui l’uomo trova il suo piacere nel farsi complice dei suoi persecutori?

Le parole delle beatitudini, per essere comprese, hanno assolutamente bisogno di essere unite a immagini concrete, cioè alla testimonianza di cristiani che vivono come Cristo e che possono darne una riproduzione non falsificata. Penso ad Asia Bibi, in Pakistan, e ai sei anni trascorsi in carcere; alle comunità cristiane di Aleppo; ai cristiani della piana di Ninive ammassati nei campi profughi di Erbil; ai cristiani martiri in Nigeria, in Egitto e in tante altre parti del mondo. Allora mi appare l’immagine di un popolo che ha fiducia nella Parola di Dio e le resta fedele, pur in mezzo alle prove e alle persecuzioni: beati! Penso ad un popolo pieno di desiderio, tormentato da una fame e da una sete che nulla può colmare: beati! Immagino un popolo in marcia verso una terra promessa mai raggiunta, vedo una folla di viaggiatori che non si carica di fardelli inutili, una carovana che conosce i dolori e le privazioni di una strada inospitale e gli attacchi dei nemici che non danno tregua al loro lento avanzare: beati! Contemplo un popolo di poveri che guarda avanti, portato dalla speranza e ostinatamente fedele a Colui nel quale ha posto la sua fiducia: beati!
Sì, le beatitudini sono l’umile e perseverante cammino dei discepoli di Gesù. Sono le pagine di una storia scritta con il sangue indelebile del loro martirio. Sono un’alba di speranza per tutti.

Giorgio Scatto
Fonte:MONASTERO MARANGO, Caorle (VI)

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