CIPRIANI SETTIMIO SDB,"Avete inteso che fu detto agli antichi... Ma io vi dico..."

12 febbraio 2017 | 6a Domenica - Tempo Ordinario A | Lectio Divina
"Avete inteso che fu detto agli antichi...
  Ma io vi dico..."
C'è un'ideale continuità fra le varie letture di questa Domenica, incentrata sulla tematica della "legge"
e dei diversi "comandamenti" che la esprimono, e che Gesù non è venuto ad abolire, ma a completare:

"Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti;
non sono venuto per abolire, ma per dare compimento" (Mt 5,17).

È proprio vero allora, come sostengono alcuni, che "vangelo" e "legge" sono antitetici? O non piuttosto è vero che anche la "legge" può e deve diventare "vangelo"?

"Beato l'uomo che cammina nella legge del Signore"

Il tema della "legge" è esplicito nel canto responsoriale, che riporta alcuni versetti del Salmo 119, il quale è tutto una commossa esaltazione della rivelazione divina, espressa in ognuna delle 22 strofe che lo compongono con otto termini alternati, più o meno equivalenti: legge, testimonianza, precetto, comando, promessa, parola, giudizio, via.
Non è un generico moralismo quello che viene proposto, né un ideale vagamente stoico che fa affidamento solo sulla ferrea volontà dell'uomo per realizzare i suoi traguardi, ma una meditazione "sapienziale" sulle esigenze della volontà di Dio e soprattutto una invocazione per un "di più" di "intelligenza" e di buon volere, sia per contemplare le "meraviglie" della legge, sia per "farla" e "custodirla" nel proprio cuore.
La prima lettura, poi, propone alcune riflessioni del libro del Siracide sulla "radice" stessa della moralità, che si basa sul libero arbitrio. La "legge" non avrebbe senso se l'uomo non fosse libero: egli è grande anche quando sbaglia, perché compie un gesto autonomo, personale, anche se questo lo conduce alla "morte". Però è una "morte" che si costruisce con le proprie mani! È questa una "tragica" grandezza; ma che differenzia radicalmente l'uomo da una pietra, da un minerale, da un animale, che hanno pure le loro "leggi", che essi però seguono per fatalità connaturata al loro stesso essere.
"Se vuoi, osserverai i comandamenti;
l'esser fedele dipenderà dal tuo buonvolere.
Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua;
là dove vuoi stenderai la tua mano.
Davanti agli uomini stanno la vita e la morte;
a ognuno sarà dato ciò che vorrà..." (Sir 15,16-18).
La "morte" e la "vita" non sono qui tanto concetti fisici quanto "etici": la "vita", infatti, sta a significare la comunione con Dio, l'accettazione della sua "legge", che permette all'uomo di realizzarsi secondo il progetto divino; la "morte", invece, è il rifiuto di questa progettazione, e perciò una forma di fallimento, un non-senso della propria esistenza. È evidente perciò che la grandezza più vera dell'uomo consiste nel saper scegliere la "vita". Qui soprattutto egli è artefice di se stesso, sia pure sempre subordinatamente al disegno di Dio:
"Egli non ha comandato a nessuno di essere empio
e non ha dato a nessuno il permesso di peccare" (v. 20).

"Interiorizzare" la legge

Il brano di Vangelo è piuttosto lungo (Mt 5,17-37), ma la seconda parte (vv. 21-37) in pratica ribadisce, con esemplificazioni diverse, lo stesso concetto: la "legge" ha valore soltanto nella misura in cui viene "interiorizzata", colta cioè nella sua ispirazione di fondo, che è quella di trasformare l'uomo nei suoi rapporti con gli altri.
Finché il comandamento del "non uccidere" non si trasformerà in quello positivo di "amare", io continuerò a uccidere il fratello dentro il mio cuore; finché il comandamento del "non spergiurare" non si trasformerà in quello dell'essere "leale" e sincero fino a rendere trasparenti i miei stessi pensieri, io continuerò egualmente ad essere spergiuro. E così si dica di tutti gli altri precetti.
Quello che conta non è la "materialità" o, come si dice, la "lettera", ma lo spirito che "vivifica" la "legge" e la fa diventare espressione spontanea di bontà, di sincerità, di comprensione fraterna, di obbedienza, di fedeltà a Dio e agli uomini. A questo punto la "legge" è già diventata "vangelo", cioè "grazia", perché agisce dall'interno, in virtù dello Spirito, quasi per moto spontaneo!

"Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento"

Ma cerchiamo adesso di analizzare questo tratto così significativo del discorso della Montagna, che nella sua quasi totalità contiene materiale esclusivo di Matteo.
La prima parte (vv. 17-19) vuol far vedere la "continuità" fra Antico e Nuovo Testamento, in polemica contro alcuni cristiani che formavano la comunità a cui si rivolge Matteo, provenienti forse dal mondo ellenistico, e che ritenevano del tutto superata l'antica "legge" con la venuta di Cristo. Egli, al contrario, dichiara di non essere "venuto per abolire, ma per dare compimento (in greco pler&hibar;osai)".
Il "compimento" si può intendere sia nel senso di "perfezionamento", come dimostreranno le successive contrapposizioni, sia nel senso che ormai l'Antico Testamento assume il suo "pieno" significato in Cristo, come insegnerà Paolo: "Fine della legge è Cristo" (Rm 10,4). Sia nell'un senso che nell'altro è vero quanto dice Gesù: "In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della legge neppure un iota o un segno,1 senza che tutto sia compiuto" (v. 18).
Si noti la solennità con cui si esprime qui Gesù: "la Legge e i Profeti", espressione sintetica per indicare tutto l'Antico Testamento, avranno la stabilità del "cielo" e della "terra", proprio perché in essi si è rivelata e continua a rivelarsi la volontà di Dio. Di qui l'invito a osservarli "scrupolosamente" e anche a "insegnarli" agli altri, per non essere esclusi dal "regno" (v. 19).

"Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei"

Se non esiste rottura con il passato, questo non significa, però, che la continuità si riduca a mera ripetizione; tanto più che con Gesù di Nazaret è entrata nel mondo la misura nuova della "giustizia" (dikaios´yne), cioè della interpretazione e dell'adempimento della "volontà" del Padre che sta nei cieli. Perciò egli aggiunge subito la frase: "Ma io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" (v. 20).
Questo versetto fa da ponte alla seconda parte del brano (vv. 21-37), in cui per sei volte consecutive si fa un confronto serrato fra la giustizia "superiore", introdotta da Cristo, e quella "antica", come la interpretavano gli scribi e i farisei.
In questo brano quasi certamente Matteo polemizza con un'altra parte di cristiani che formavano la sua comunità, provenienti dall'ambiente giudaico: essi dovevano ritenere "perfetto" l'Antico Testamento con la minuziosità delle sue norme; al massimo, per loro, Gesù era un grande "maestro" che poteva "interpretare" la "legge", ma non proporne una nuova.
Invece Matteo intende dimostrare che Gesù si presenta qui come un "nuovo" Mosè, superiore a quello che ci ha trasmesso la legislazione del Sinai. Difatti, ne corregge alcuni precetti e soprattutto parla a nome proprio, mentre Mosè parlava solo a nome di Dio. È impressionante quel continuo ritornello: "Avete inteso che fu detto agli antichi... Ma io vi dico" (vv. 21.27.33.38.42). Più che maestro, perciò, egli è "rivelatore" e "profeta", che porta agli uomini il messaggio definitivo della salvezza.
In tutto il discorso della Montagna, ma soprattutto in queste così martellanti contrapposizioni, Gesù manifesta la sua lucida coscienza messianica.2
A differenza degli scribi e dei farisei, che con le loro sottili casistiche stemperavano il senso della "legge", Gesù ne riscopre il significato primordiale che afferra tutto l'uomo, esteriorità e interiorità, per farne in ogni momento della sua esistenza e in ogni suo gesto, o pensiero, o sentimento, una perfetta "epifania" della volontà di Dio. Gesù in tal modo "rigorizza" la legge, ma nello stesso tempo ne "facilita" l'adempimento perché la porta ad essere autentico specchio dell'uomo e non una maschera, che permette di essere sempre diverso da quello che uno può apparire all'esterno.

"Avete inteso che fu detto agli antichi: "Non uccidere"

Le esemplificazioni che seguono voglio essere la dimostrazione concreta di come Gesù intende ricomporre l'uomo, partendo dall'equilibrio interiore. Esse si riferiscono al quinto, al sesto e in parte al secondo comandamento facendo vedere come tali comandamenti abbiano senso soltanto se riportati alla radice intima, donde sgorga la moralità umana, cioè il "cuore".
"Avete inteso che fu detto agli antichi: "Non uccidere"; chi avrà ucciso sarà sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna" (vv. 21-22).
È facile notare la progressione nella pena: dalla condanna nel tribunale locale ("giudizio"), o nazionale ("sinedrio"), si arriva sino alla punizione del fuoco dell'inferno ("geenna"). E ciò non in base a un effettivo gesto di uccisione, ma solo a un sentimento interiore di collera, o ad espressioni offensive solamente verbali.
Il che significa due cose: primo, che il bene e il male stanno nel cuore dell'uomo; secondo, che è già un "uccidere" il fratello quando si cerca di squalificarlo o di denigrarlo nella propria o nell'altrui reputazione. Infatti, non accettarlo per quello che è realmente, significa toglierlo dal nostro circuito di rapporti affettivi, considerarlo come già morto.
Si capisce perciò l'invito di Gesù a "riconciliarci" con il fratello offeso, o offensore, prima di "offrire" il proprio sacrificio: "Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (vv. 23-24). Anche qui tutto è riportato all'interiorità: il "sacrificio" vero consiste nell'amore e nel perdono, che sono sentimenti profondi che possono nascere solo dal "cuore" dell'uomo.

"Avete inteso che fu detto: "Non commettere adulterio""

La seconda e la terza esemplificazione riguardano ambedue il caso dell'adulterio, che deve essere colpito anch'esso alla radice, cioè là dove nascono i cattivi desideri, gli insani ribollimenti delle passioni, le brame adulterine che già si esprimono negli sguardi curiosi o provocanti: "Avete inteso che fu detto: "Non commettere adulterio"; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già compiuto adulterio con lei nel suo cuore" (vv. 27-28).
Al di là della soglia del desiderio, l'adulterio viene colpito anche nella sua occasione concreta, che era fornita dalla stessa legislazione mosaica, la quale consentiva il "ripudio" della propria moglie in alcuni casi (cf Dt 24,1; Ml 2,14-16). Perciò Gesù dichiara solennemente: "Chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all'adulterio; e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio" (v. 32).
Il "libello di ripudio" in realtà equivaleva a un adulterio già consumato, o comunque sempre consumabile da parte di ognuno dei due partners. Qui Gesù, più che correggere, abolisce la legge mosaica, considerandola fomentatrice di adulterio per il solo fatto di "permetterlo" in alcuni casi.
Pur ribadendo l'assoluto primato dell'interiorità, Gesù riconosce una funzione "pedagogica" alla legge codificata: quando invece questa rinuncia alla sua finalità educativa e legittima le cattive tendenze degli uomini o la loro degradazione spirituale, è chiaro che la legge non ha più nessun significato ed è bene riformarla perché non diventi non solo complice, ma addirittura legittimatrice del male.

"Avete inteso che fu detto agli antichi: "Non spergiurare""

L'ultima esemplificazione, che mette a confronto la nuova "giustizia" con quella dell'Antico Testamento, è relativa al giuramento: "Avete anche inteso che fu detto agli antichi: "Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti". Ma io vi dico: Non giurate affatto; né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re... Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno" (vv. 33-35.37).
Contrariamente a quanto può sembrare, il giuramento è un atto di sfiducia verso il prossimo: perché ci si fida poco dell'altro, si interpone il "nome" di Dio come garante delle affermazioni o degli impegni che si accettano reciprocamente. Infatti in una comunità di credenti, il "nome" di Dio dovrebbe essere definitivo e vincolante. Ma se si ha l'animo sleale verso il fratello, basterà una mera formula di giuramento per sentirsi vincolati da quello che diciamo con le parole, ma non con il cuore? O non piuttosto si diventerà doppiamente spergiuri: verso Dio e verso i fratelli?
Proprio per evitare questa possibilità di "doppio" spergiuro, Gesù invita a "non giurare affatto" (v. 34). Anche qui egli propone di andare alla radice delle cose: poiché la falsità nasce dalla tendenza dell'uomo a dissociarsi interiormente, Gesù esige dai suoi discepoli la fedeltà a se stessi: ciò che è sulle nostre labbra, sia anche nel nostro cuore, si tratti del "sì", o si tratti del "no". Quello che si aggiunge "in più" alle nostre parole, per dar loro maggiore credibilità, viene "dal Maligno" (v. 37), cioè da Satana, che è "menzognero e padre della menzogna" (Gv 8,44) fin da principio.

"Beatitudini" e "giustizia" nuova

Qualcuno avrà notato che queste quattro contrapposizioni, intese a mettere in evidenza lo spirito nuovo con cui il cristiano deve adempiere le esigenze della "legge", sono la traduzione in atto di due delle "beatitudini": gli "operatori di pace" sono coloro che non solo "non uccidono", ma neppure dicono "stupido" o "pazzo" al fratello, proprio perché vogliono realizzare la grande "riconciliazione" di tutti gli uomini fra loro, con la creazione e con Dio; i "puri di cuore" sono coloro che hanno il cuore e la mente limpidi e perciò non sono doppi nel loro linguaggio ("sì, sì; no, no"), e tanto meno nutrono inconfessati desideri di fornicazione o di "adulterio" verso la prima donna che incontrano.
La "giustizia" superiore predicata da Cristo si muove dunque nell'ambito delle "beatitudini" e ne è una espressione coerente. Proprio per questo essa non è un'imposizione legalistica, ma un "dono" e un supplemento di buona volontà e di amore, che egli fa a chiunque "desideri" vivere la novità evangelica.
A questo punto ci rendiamo ancor meglio conto che la "legge", che Cristo è venuto a "perfezionare", non ha più nulla in comune con il legalismo, e neppure con il tradizionale "moralismo", ma è già "grazia". Il Vangelo ha le sue esigenze, rigorosissime e scarnificanti, fino al punto di farci paura: ma ci dà anche la forza di attuarle mediante la "grazia" che sempre ci soccorre in Cristo.

"Parliamo di una sapienza divina, misteriosa..."

In questa prospettiva si muove la seconda lettura, dove Paolo parla del Vangelo come di una "sapienza misteriosa che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria" (1 Cor 2,7).
Soltanto quelli che si affidano alla forza dello Spirito possono farne esperienza e penetrarla.
Solo perché abbiamo il "dono" dello Spirito (cf Rm 8,2-4) possiamo compiere le opere della "legge" propostaci da Cristo. "Quando Dio istruisce non con la lettera della legge, ma con la grazia dello Spirito Santo, lo fa in maniera che colui che si degna di istruire, non solo conosca perfettamente, ma ancora voglia sinceramente adempiere e adempia effettivamente ciò che ha imparato. Questo insegnamento non viene in aiuto alla sola facoltà naturale di volere, ma alla volontà stessa e all'opera della volontà"

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