Don Marco Ceccarelli, "La santità di Dio."

VII Domenica Tempo Ordinario “A” – 19 Febbraio 2017
I Lettura: Lv 19,1-2.17-18
II Lettura: 1Cor 3,16-23
Vangelo: Mt 5,38-48
- Testi di riferimento: Es 21,23-25; 23,4-5; Lv 11,44-45; 19,18; 25,35-37; Dt 15,7-11; Sal 7,3-5;
103,10; Pr 8,29; 20,22; 24,29; Is 50,4-8; Lam 3,30; Mt 5,11-12; 19,21; 21,29-32; 22,37-40; 26,52-
56.67; 27,32.35; Lc 6,35-36; 23,34; Gv 13,14; 15,12; Rm 12,14-21; 13,8-10; 1Cor 3,17; 4,11-13;
6,7; Ef 4,32-5,1; Fil 2,15; 1Ts 5,14-15; 1Pt 1,15-16; 2,20-25; 3,9; 2Pt 1,4
1. La santità di Dio. Il brano di Vangelo odierno, che completa il discorso ascoltato la domenica

precedente e lo illumina ulteriormente, mette in chiaro che quello che poteva sembrare a prima vista
un insegnamento giuridico da parte di Gesù è invece uno svelamento della profonda realtà di Dio e
dell’uomo. Israele aveva chiaro che il suo Dio era Santo, cioè estremamente diverso da ciò che è
creato. La santità è ciò che distingue il Dio di Israele da tutto ciò che non è Dio. Ma, come vediamo
dalla prima lettura, Jahvè chiede al suo popolo, con il quale si è unito in alleanza, di essere santo
come lui. La legislazione biblica, la torah, mira a rendere Israele santo come il suo Dio. E ciò si
esplicita nell’amore verso il prossimo, oltre che verso Dio stesso. E soprattutto non va dimenticato
che nell’osservanza di queste norme si trova il cammino della vita, della felicità. L’uomo può essere
felice – nella misura in cui si può esserlo in questa vita – adottando uno stile di vita, un’etica, che
riproduce la santità divina, la cui essenza sta nell’amore. Amare o non amare è ciò che rende
l’uomo felice o infelice. Il che nel linguaggio biblico si declina con vita o morte, con prosperità o
perdizione. Se l’uomo distrugge se stesso non è perché Dio lo ha punito del male che ha fatto. Curiosamente
nella seconda lettura odierna Paolo afferma, secondo il principio della legge del taglione
(quella che Gesù cita nel brano evangelico), che se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà
lui (1Cor 3,17). Il tempio di Dio siamo noi stessi; è il nostro corpo. Se con il peccato facciamo del
male al nostro corpo, esso si autodistrugge, subisce un danno irreparabile. Questa è la “legge” che
Dio ha messo nell’essere umano. Dio non costringe nessuno a peccare, abbiamo ascoltato domenica
scorsa. Se uno pecca si danneggia da solo (Pr 8,29); punto. Ogni azione, palese o nascosta, contro
l’amore è innanzitutto un danno per chi la compie. Perché la legge che Dio ha posto nell’universo,
la legge con la quale siamo stati creati e che riflette la santità divina, è la legge dell’amore. Un amore
che si manifesta nella benevolenza verso tutti, anche i malvagi. Di fatto, come si afferma in Sal
103,10: «Egli non ha agito secondo i nostri peccati, non ha ripagato secondo le nostre colpe». La
stessa cosa gli uomini sono chiamati a fare. Ma ciò è possibile o è un’utopia?
2. “Figli del Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,45).
- L’affermazione di Gesù relativa al comportamento di Dio verso i cattivi e gli ingiusti conferma il
fatto che non è da Lui che provengono le sorti infauste dei peccatori. La bontà di Dio verso i malvagi
non esclude la loro possibilità di procurarsi il male con la loro condotta; esclude invece che quel
male sia una specie di punizione divina. Dio continua ad usare benevolenza, continua ad amare,
perché in Dio non c’è che amore. La natura di Dio, la sua santità, è l’amore (1Gv 4,8.10). Dio continua
a tenere un atteggiamento di benevolenza verso tutti, non elargendo i suoi benefici secondo la
misura del merito di ciascuno (almeno finché siamo in questa vita; cfr. Mt 13,30). E tale atteggiamento
è quanto è richiesto anche ai suoi figli. Tutto il discorso della montagna va interpretato alla
luce di questa figliolanza. Gesù è il figlio diletto, cioè “unico” del Padre, nel quale Egli si compiace
(Mt 3,17), perché compie perfettamente la sua volontà. Gesù è il Santo di Dio (Mc 1,24; Gv 6,69)
perché lo è innanzitutto dal punto di vista ontologico. Ma il Figlio dà la possibilità a coloro che accolgono
il regno dei cieli da lui portato di diventare anch’essi figli dello stesso Padre, diventando
partecipi della sua santità; perché «l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Diventano santi ontologicamente lo si può essere anche
sul piano delle opere; anche se il secondo aspetto non segue automaticamente, perché si può essere
figli e tuttavia rifiutarsi di fare la volontà del Padre (cfr. Mt 21,29-32). Per questo la parola chiave
nel discorso della montagna è “Padre”. I discepoli agiscono soltanto in funzione del Padre
(6,1.4.6.14.18); essi si rivolgeranno a Dio chiamandolo Padre (6,9); non si preoccupano del futuro
perché il loro Padre si prende cura di loro (6,25-32). I cristiani sono figli di Dio in modo analogo a
Gesù. E, come Gesù, compiono la giustizia, la volontà di Dio, ad imitazione del Padre.
- L’imitazione del Padre. La verità cristiana non è soltanto una questione di dogmi. È invece soprattutto
un “essere” che si manifesta in un “agire”. Il cristianesimo è la “via”, la “condotta” per eccellenza,
l’arte del vivere secondo il vivere divino. Il cristiano ha ricevuto una nuova natura, è stato
“divinizzato”. Essendo divenuti partecipi della natura divina (2Pt 1,4) possiamo conformarci
all’agire del Padre. L’etica cristiana è uno specchio dell’etica divina (cfr. Ef 4,32-5,1); e la piena rivelazione
dell’etica divina si ha in Cristo. È guardando il Figlio e il suo comportamento che impariamo
chi sia il Padre e quale sia il Suo comportamento. E tuttavia l’imitazione di Dio non deriva da
un appello alla volontà umana, perché nessun uomo può essere all’altezza di Dio. Si tratta invece di
una somiglianza che viene dall’essere nati dall’alto. Il cristiano è un altro Cristo in quanto è diventato
figlio dal Padre celeste e in quanto figlio assomiglia al Padre, “naturalmente”. Cristo, il Figlio
unigenito e primo di molti fratelli (Rm 8,29), diventa lui stesso il criterio basilare dell’agire cristiano
perché in lui si riflette perfettamente l’agire del Padre. L’imitazione di Dio diventa perciò imitazione
di Cristo (Gv 13,14; 15,12; Rm 15,5; 1Cor 11,1; 1Pt 2,21) nel quale si sono incarnate perfettamente
queste sue parole.
3. Possiamo capire allora che la buona notizia di Gesù riguardo alla venuta del regno dei cieli è una
fantastica chiamata ad appartenere al regno dell’Amore. Un regno in cui si obbedisce a Dio, ai suoi
comandamenti, non per sentirci giusti, per sentirci perfetti, ma per realizzare la vocazione inscritta
nella nostra natura che è quella dell’amore. Un amore che ha poco o nulla a che fare con il sentimento,
ma è una questione di “opere”, di prassi, così come Dio ci ama nella prassi, non sentimentalmente.
Le sei esplicitazioni di Gesù riguardo alla Legge sono perciò un inno all’amore, una delucidazione
di cosa vuol dire essere passati da un rapporto con Dio fatto di un’osservanza formale dei
comandamenti, ad una vita posseduta dallo Spirito (d’amore) di Dio, dove regna la grazia di Dio
(Rm 5,21), che si riflette in atti d’amore verso gli altri a somiglianza del Padre. Tutta la Legge (torah)
deve essere interpretata alla luce di questa verità fondamentale, alla luce della nuova realtà del
regno di Dio in mezzo agli uomini.
4. Il Servo di Jahvè. Le due ultime esplicitazioni presenti nei vv. 38-44 non sono soltanto il culmine
del discorso di Gesù relativo alla giusta interpretazione della torah, ma soprattutto una indicazione
di come Gesù abbia compiuto tale torah; essendo egli venuto appunto per compiere la legge e i profeti.
E li ha compiuti nel modo in cui è descritto nei canti del Servo presenti in Isaia (cfr. soprattutto
Is 50, 5-6; 53,4-12). Tale personaggio si carica dei peccati del popolo, affinché esso ne sia liberato;
e per fare ciò accetta volontariamente di subire ingiuste angherie fino alla morte. Gesù realizza perfettamente
questo con la sua passione. Se egli chiede ai discepoli di non opporsi al malvagio e di
porgere l’altra guancia (v. 39), di rinunciare a difendere i propri diritti in tribunale (v. 40), di assecondare
le sopraffazioni del prossimo (v. 41), di amare i propri nemici (v. 44), è perché lui stesso ha
fatto ciò (vedi testi di riferimento). E perché in questo atteggiamento si trova la soluzione del male
del mondo. Le opere dei cristiani che illuminano il mondo, quelle che mostrano ad esso la vera luce
che è la santità divina, il Suo amore, sono le opere dell’amore, che hanno il loro compimento nel caricarsi
dei peccati degli altri, a imitazione di Cristo (1Pt 2,20-25).
5. Ad amarlo diventerai imitatore della sua bontà, e non ti meravigliare se un uomo può diventare
imitatore di Dio: lo può se lui (l’uomo) lo vuole. Non si è felici nell’opprimere il prossimo, nel voler
ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori. In questo nessuno può imitare
Dio; sono cose lontane dalla Sua grandezza! Ma chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò
che è superiore cerca di beneficare l’inferiore; chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio,
è come un Dio per i beneficati; egli è imitatore di Dio (A Diogneto X)

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it

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