don Enzo Pacini, Per l’acqua di Gesù non serve un secchio

Per l’acqua di Gesù non serve un secchio
Domenica 19 marzo - III DOMENICA DI QUARESIMA. «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno».
Le domeniche di quaresima del ciclo A dell’anno liturgico propongono letture dal forte sapore
battesimale, utili per l’eventuale preparazione dei catecumeni a ricevere il battesimo nella veglia pasquale. Questo tono  battesimale emerge chiaramente nel tema dell’acqua, ricorrente nella prima lettura (Es 17, 3-7) e nel Vangelo (Gv 4,5-42).

L’annuncio di Cristo, sorgente di acqua viva, non è soltanto un tema liturgico o sacramentale, bensì esistenziale; non riservato solo ad un momento puntuale della nostra vita di fede, ma che abbraccia tutto l’orizzonte dell’esistenza, esattamente come l’acqua per la vita biologica,  elemento quotidiano imprescindibile, che pervade nell’intimo i nostri tessuti. Così pure lo spirito di Cristo che pervade l’universo , che soffia dove vuole (cf. Gv 3, 8) e mette in scacco gli stessi credenti, spesso arroccati nei loro schemi e con  la pretesa di irreggimentare questo flusso vitale nelle canalizzazioni  dei concetti e delle dottrine, in rassicuranti cisterne o otri che comunque non riescono a contenerne la forza (cf. Ger 2,13).

Il dialogo fra Cristo e la donna dà il senso di questa tensione, il tentativo di quest’ultima di classificare il Cristo in categorie conosciute: il Giudeo, ovvero l’estraneo, poi il profeta, il  teologo (con l’accenno alla disputa sul luogo del culto), infine il Messia. Gesù rompe una dopo l’altra queste classificazioni e rilancia continuamente il dialogo oltre questa barriera.  Come già accennato, le mediazioni saltano: non serve un secchio, non serve un’anfora (che viene abbandonata dalla donna), non serve neppure un tempio,  un luogo particolare per l’incontro con Dio. Colui che è incontenibile si troverà paradossalmente a suo agio nel luogo apparentemente più angusto e infimo, ovvero il cuore dell’uomo.

Anche i contenitori sociali saltano uno dopo l’altro: gli stessi discepoli non sono esenti dagli stereotipi che reputano sconveniente il dialogo con una donna, per di più samaritana, e pure la loro comprensione di Gesù Cristo si manifesta alquanto carente. I discepoli oscilleranno sempre fra le preoccupazioni organizzative (preoccuparsi per il cibo e, per contro, il timore della sua mancanza -cf. Mc 8,17-) e la prorompenza del Messia che chiama a guardare oltre, ad alzare lo sguardo sull’immensità dell’opera di Dio a favore dell’ uomo ( cf. Sal 106, 8-9). Non siamo molto lontano dall’incapacità ancora più radicale del popolo nel deserto di leggere le opere di Dio al di là dello stretto momento presente, senza che ciò faccia maturare una vera confidenza (cf. Sal 77, 34-37)  in una altalenanza di sentimenti che ogni volta riparte da zero. In quest’ottica perfino il grande momento del dono dell’acqua per la vita diviene il simbolo della contesa: Massa e Meriba, incarnazione dell’incomprensione e dell’indurimento del cuore (cf. Sal 94,8).

È necessario che anche la mediazione della testimonianza e dell’annuncio, pur essenziale, maturi in un rapporto più vivo e personale: «non è più per le tue parole che noi crediamo» dicono i samaritani.  Mistero di una realtà che non è calibrata sulla chiesa e disponibile ad essa, irriducibile a un semplice dato culturale o sociologico, ammonimento a non sentirsi padroni della fede altrui, ma collaboratori per una gioia piena (cf. 2 Cor, 1,24), invito alla scoperta dell’amore di Dio «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito» (Rm 5,5).

*Cappellano del carcere di Prato

Fonte:http://www.toscanaoggi.it/

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