Abbazia Santa Maria di Pulsano,Lectio Domenica «del paraclito che resta»

Domenica «del paraclito che resta»
VI Dom. di Pasqua A
Gv 14,15-21; At 8,5-8.14-17 (leggi 8,5-25); Sal 65; 1 Pt 3,15-18
Tutta la storia della salvezza è caratterizzata dall’iniziativa di Dio che si manifesta per comunicare la
sua vita all’umanità, unificandola in un popolo che sarà come il suo tempio.
Il compimento di questo disegno avviene con Cristo: la sua umanità è il tempio definitivo nel quale si dà al Padre un culto perfetto. Col mistero pasquale il luogo del nuovo culto in spirito e verità, il luogo sacro della presenza di Dio in mezzo al suo popolo si estende da Cristo alla comunità dei credenti fatta suo corpo. Da questo momento il tempio di pietre ha un valore secondario: il vero tempio di Dio è la chiesa, in cui abita la presenza interiore e dinamica dello Spirito santo.
L’assemblea eucaristica è la manifestazione di questa prerogativa sacerdotale del popolo di Dio. Il nostro sacerdozio battesimale non consiste nell’offrire a Dio solo delle cose, ma, a imitazione di Cristo, offrire a Dio innanzitutto le nostre persone. Nella liturgia che celebriamo noi siamo liberati e uniti a Cristo nostro capo glorioso, ai santi che sono già con Lui nella casa del Padre e a tutti i fratelli sparsi sulla terra:

Antifona d’Ingresso Cf Is 48,20
Con voce di giubilo date il grande annunzio,
fatelo giungere ai confini del mondo:
il Signore ha liberato il suo popolo. Alleluia.

L’Antifona d’ingresso, Is 48,20 (adattato), appartiene al «Secondo Isaia» (Is 40-55) che pronuncia la sua profezia durante l’esilio babilonese (circa 550 a. C.). Il Profeta, come una squilla improvvisa e inattesa di risveglio per il popolo che era prostrato e demoralizzato, fa risuonare la Voce divina dappertutto, per annunciare nella gioia rinnovata (41,8; 44,21; Lc 1,54) che il Signore ha liberato Giacobbe servo suo, il popolo suo, verso cui l’alleanza fedele è indefettibile. Il Profeta si serve del passato profetico, che nella visuale storica vede la realtà annunciata come già avvenuta, in forza della Parola stessa che la proclama. Così la Voce divina della gioia deve diventare anche voce umana di gioia per la redenzione (v. 5; e 42,1). La patria è vicina. Così essa risuona anche in questo tempo dopo la Resurrezione, la Fonte unica del Dono dello Spirito Santo, che è la Redenzione stessa, la Libertà divina donata agli uomini (Gal 5,1; 2 Cor 3,17). Dalla Libertà dello Spirito è creato il popolo redento e santificato, popolo della divina alleanza fedele. E oggi da questo popolo esce la voce del giubilo, e lo annuncia al mondo.

Canto all’Evangelo Gv 14,23
Alleluia, alleluia.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.
Alleluia.

Nell’alleluia all’Evangelo (Gv 14,23) quell’amore verso il Signore che è stato tante volte ansiosamente richiesto da Lui stesso ai suoi discepoli (8,31; 15,10; 21,23; 1 Gv 5,3; 2 Gv 6), porta al segno tangibile: praticare la Parola da Lui portata e donata a essi. Solo allora il Padre ama i discepoli così visitati dallo Spirito Santo, quelli che dallo Spirito Santo vivono la Vita nuova. Questa è la preparazione immediata alla Venuta del Figlio (Ap 3,20; Ct 5,2), il quale promette che, venendo, porterà con sé il Padre, con il quale porrà in essi la loro augusta Dimora trasformante.
Per questo oggi la chiesa chiede al Signore di vivere con rinnovato impegno questi giorni di letizia in onore di Cristo risorto, per testimoniare con le opere il memoriale della pasqua che celebriamo nella fede:

I Colletta:
Dio onnipotente,
fa’ che viviamo con rinnovato impegno
questi giorni di letizia in onore del Cristo risorto,
per testimoniare nelle opere
il memoriale della Pasqua che celebriamo nella fede.
Per il nostro Signore...

«Oggi qui» per i fedeli si realizzano le realtà divine che il Signore promette a chi Lo ama. La celebrazione deve essere il sigillo della loro osservanza dei comandamenti del Signore, e la forza per seguitare a osservarli anche dopo. Il Signore in perpetua epiclesi al Padre ottiene a essi il Paraclito onnipotente, lo Spirito Santo dell’Amore eterno, che pone la sua Dimora nei fedeli. E li assiste nella prova terribile della loro esistenza, che è il giudizio continuo a cui sono sottoposti dal Maligno. E questa divina Dimora dello Spinto Santo, che rende possibile la Venuta del Figlio che in modo indiviso porta il Padre, prende la forma della Parola che si ascolta e si mangia, dei Divini Misteri del Corpo e della Coppa del Signore, e della comunione che si deve fare di continuo con la Madre, la Chiesa, la sede della Trinità beata:

Antifona alla Comunione Gv 14,15-16
«Se mi amate,
osservate i miei comandamenti»,
dice il Signore.
«Io pregherò il Padre,
ed egli vi darà un’altro Consolatore,
che rimanga con voi in eterno». Alleluia.

La nostra condotta quotidiana, perciò, non deve essere altro che una lenta e progressiva estensione della vittoria di Cristo sulla morte: dev’essere una vittoria pasquale e una vita in cammino verso la risurrezione.
Così, nel Signore risorto, il Padre riporta l’umanità alla speranza eterna:

Dopo la Comunione
Dio grande e misericordioso,
che nel Signore risorto
riporti l’umanità alla speranza eterna,
accresci in noi l’efficacia del mistero pasquale
con la forza di questo sacramento di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.

La pericope di questa VI Domenica di Pasqua sta in consecuzione con quella di Domenica scorsa, con la quale è bene che sia letta. La rivelazione durante la Cena prosegue sempre più ricca e densa, in un’atmosfera che si intuisce bene come tesa negli animi.
I discepoli all’inizio si sono visti consacrare dalla lavanda dei piedi; hanno ascoltato la predizione che Giuda tradirà e Pietro rinnegherà; hanno ricevuto il comandamento nuovo dell’amore; hanno saputo che il Signore è la Via e la Verità e la Vita, l’unico accesso al Padre; che essi compiranno «opere maggiori» di quelle del Signore stesso. Ma nulla compresero finora!
II Signore lo sa, per questo ora sta per comunicare una realtà fra le più profonde: il Dono dello Spirito.
Nei discorsi della Cena, la sezione di Gv 14,15 fino a 16,15 contiene le 5 promesse dello Spirito Santo, che stanno sotto il simbolo della pienezza e della totalità della Pentecoste: 5 = 50 (ovvero 5 x 10).
La pericope di oggi, Gv 14,15-21, contiene solo la 1a promessa dove più che un’attività precisa dello Spirito si sottolinea la sua intimità al discepolo e la sua relazione con il Cristo. L’elenco è questo:
I) Gv 14,15-17;
II) Gv 14,26;
III) Gv 15,26-27;
IV) Gv 16,7-12;
V) Gv 16,13-15.
Si può dire che ogni promessa della presenza operante dello Spirito Santo è completa, dunque simile alle altre, e tuttavia non identica, bensì con significanti variazioni. Ad esempio, solo nella II promessa si dice che lo Spirito santo farà fare l’anamnesi liturgica.
Per coglire pienamente e al meglio la portata delle singole promesse è sempre opportuno non isolarle dal contesto dei discorsi della Cena e collegarle alle domande che i discepoli pongono a Gesù in relazione alla loro sequela, al mistero della sua persona, alle modalità della rivelazione divina che si attua in lui. I discepoli proprio grazie al dono dello Spirito potranno superare la loro incomprensione del mistero di Cristo e vivere la loro sequela.

Esaminiamo il brano

v. 15 «Se mi amate osserverete...»: Le 5 promesse stanno tutte e per intero sotto l’unica  condizione: amare Cristo Signore (Gv 14,15a).
A sua volta questa condizione si risolve nell’obbedienza d’amore: osservare i precetti del Signore (Gv 14,15b).
E questa condizione sta sotto il “Segno” supremo, posto significativamente all’inizio della Cena, quasi come suo contenitore: che il Signore «amò i suoi fino al télos, al culmine» (Gv 13,1).
Il verbo téréó, «custodire, osservare, adempiere», al futuro forma qui una inclusione tra i vv. 15 e 21. All’interno di questa duplice esortazione, Giovanni pone la preghiera per il dono dello Spirito e la promessa di tornare dai discepoli (vv. 16-20).
«i miei comandamenti»: Qui Gesù parla dei comandamenti al plurale, in contrasto con il «comandamento nuovo» (singolare) di 13,34. In entrambi i casi, non si tratta dell’adempimento di semplici precetti morali, ma di tutto un modo di vivere in unione d’amore con lui. I discepoli sanno che i precetti divini sono diversi, perché abbracciano ogni aspetto della vita redenta. Essi tuttavia per la loro validità debbono derivare dal «precetto ultimo», il “comandamento nuovo” dell’amore fraterno al quale in fondo tutti i precetti si riducono: i discepoli si ameranno «come il Signore li amò» (Gv 13,34), in modo totale, per la vita, dando la vita e perdendola.
Solo allora il Signore potrà pregare il Padre per il Dono supremo.
L’osservanza dei comandamenti di Gesù è l’espressione concreta dell’amore; quali siano questi comandamenti non si dice, ma certamente si conoscevano molto bene nella comunità dei credenti, cui è rivolto il discorso.
Comandamenti che anche noi dovremmo ben conoscere, ormai così assidui nell’ascolto della Parola.
L’amore di cui Gv ci parla non è pensato in modo romantico, ma molto concreto (cfr 15,13).
«amate»: nell’originale greco Giovanni usa agapáō il verbo che nella Scrittura indica l’amore di Dio per gli uomini. Lo stesso verbo è utilizzato anche in tutto il v. 21 che con il v. 15 forma ancora una inclusione.
La prima promessa appare dunque subito sotto una condizione senza la quale lo Spirito Santo neppure viene: «se mi amate, custodite i comandamenti miei». Ripetuta al v. 23, anticipata in 8,31 ed insistita in 15,10 (vedi anche 21,23; 1 Gv 5,3; 2 Gv 6) la condizione è usata anche nel responsorio dell’alleluia all’evangelo: praticare la Parola da Lui portata e donata a tutti è la preparazione immediata alla Venuta del Figlio (Ap 3,20; Ct 5,2) il quale promette che venendo porterà con sè il Padre con il quale porrà in essi la loro Dimora trasformante.
Osservare i comandamenti del Signore è l’invito che già risuona  fin dall’inizio della creazione d’Israele (Dt 6,4-5.17). La predicazione profetica, la riflessione sapienziale, il canto dei Salmi non sono altro che un continuo invito ad amare il Signore unico. L’amore deve essere fedele, aderire alla sua Volontà, essere grati che Egli ama in tutto e che comanda di amare Lui e del medesimo amore amare il proprio prossimo (Lv 19,18)
vv. 16-17   Gesù si presenta implicitamente come «Paráclito», egli è il primo (cfr 1 Gv 2,1); lo Spirito che lo sostituisce o, meglio, che continua la sua opera presso i discepoli è «un altro» Paráclito.
«e io pregherò...»: La preghiera del Signore per i discepoli che formano una comunione d’amore è rivolta al Padre, e il Padre dona allora «l’altro Paraclito». Quando Giovanni termina il suo Evangelo (verso il 96-98 d. C.?), ha già inviato la sua I Epistola. Ivi al cap. 2 avverte i suoi discepoli: «noi abbiamo un Paraclito presso il Padre, Gesù Cristo il Giusto» (1 Gv 1,2,1).
Alcune versione antiche e poi Lutero tradussero paráklêtos con “consolatore”, per avere la sicurezza individuale dell’assistenza divina. La versione così porta fuori strada.
Il verbo greco parakaléô ha come significato primario è chiamare, invocare in aiuto ad esempio Dio, e quello secondario è confortare con parole, consolare, parlare benignamente. Il nome sostantivato Paráklêton (la nuova trad. CEI non traduce ma ripropone il calco dal greco, secondo l’uso ormai consolidato dalla liturgia) significa primariamente aiuto, difensore, patrono, avvocato. Con “Avvocato” tradussero con precisione le antiche versioni Veteres latinae (dalla fine del sec. 2°).
«Consolatore» è traduzione pallida ed errata del termine greco paráklétos il quale tende più verso il senso di «uno che incoraggia alla testimonianza» (15,26-27). Abbiamo già detto infatti che il nostro termine non deriva da paráklésis: consolazione che ha poco fondamento nell’evangelo. Il termine «paráklétos» è proprio di Giovanni; è un termine giuridico che designa colui che è «chiamato accanto» (cfr lat. ad-vocatus) ad un accusato per difenderlo ed aiutarlo.
In questo senso il termine è riferito da Giovanni a Gesù in 1 Gv 2,1 (Gesù è l’intercessore degli uomini presso il Padre); questo significato non vale nell’evangelo, dove è riferito allo Spirito e non per indicare la sua funzione di avvocato presso Dio, ma la sua funzione di assistenza ai credenti.
Assistenza che si rivelerà fruttuosa nella vita di tutti i credenti.
I fedeli di Cristo hanno così presso il Padre due “Paracliti”, Gesù stesso, e lo Spirito Santo. Hanno due Avvocati invincibili presso il Padre, sia nel giudizio continuo al quale satana sottopone i fedeli, sia nel giudizio finale.
Ora Cristo Risorto esercita la sua Avvocatura anzitutto ottenendo dal Padre di donare ai suoi fedeli il suo divino Collega, lo Spirito Santo (Gv 14,15). Così conosciamo che dopo l’Ascensione la Parousía, Presenza reale e non virtuale, del Risorto tra i suoi fedeli è lo Spirito Santo. Come conosciamo che lo Spirito Santo precede, accompagna e segue e sostituisce Cristo (cf i Padri): lo Spirito Santo è anche lo Spirito della divina Verità, Colui che rende efficace questa Verità tra gli uomini.
«Lo Spirito di verità»: in questo testo il Paráclito viene implicitamente identificato con lo Spirito, di cui si parla spesso nella prima parte dell’evangelo (cfr 1,32-33; 3,5-8.34; 4,23-24; 6,63; 7,39) e di cui si viene a parlare nuovamente nel contesto della resurrezione (20,22) in relazione alla missione salvifica degli apostoli.
Sul Paráclito troviamo 5 testi, tutti nei «discorsi di addio», i già citati Gv 14,16-17; 14,26; 15,26-27; 16,7-11; 16,13-15). È chiamato «Spirito di verità» (14,17; 15,26; 16,13) e «Spirito Santo» (16,26); sono descritte le sue funzioni, principalmente quelle di insegnare e ricordare (14,26).
L’insegnamento è sempre nel suo nome (non è quindi un concorrente), il ricordo non è la semplice ripetizione di un fatto ma una comprensione nuova e avanzata.
«il mondo non può ricevere»: lo Spirito viene per i discepoli, ma non per il mondo. C’è una opposizione tra discepoli e mondo.
Gesù si manifesta ai discepoli ma non al mondo (v. 19); così sarà pure dello Spirito: i discepoli lo possiedono, il mondo no.
La manifestazione di Dio opera sempre una «krisis» (separazione).
L’incapacità di accogliere lo Spirito deriva dal fatto che il mondo non vede e non riconosce: il verbo vedere (theōréō) usato da Giovanni certamente indica uno sguardo attento, interessato; è uno sguardo rivolto a realtà storiche visibili (per es. la vicenda storica di Gesù), tale da scoprire la realtà profonda che in essa si nasconde.
Il verbo theōréō sottolinea l’apporto determinante dei sensi nella conoscenza, anche intellettuale. E siccome il mondo desidera solo ciò che vede, non può vedere il Paraclito che non può essere visto con gli occhi del corpo.
In altre parole Gesù dice che il mondo non riesce a percepire lo Spirito nelle sue manifestazioni che pure sono reali, storiche, esteriori. Il motivo è la cattiva volontà e la mancanza di affinità: il mondo non ha le disposizioni adatte per accogliere lo Spirito. La storia della salvezza (dobbiamo dolorosamente constatare) è tutto un immenso, corale, continuo e terrificante rifiuto della Presenza operante dello Spirito del Signore negli uomini. La salvezza come sta rivelando il Signore consiste proprio e solo nella Dimora dello Spirito della Verità divina:
«presso»: la preposizione usata, pará, è usata spesso in greco con i verbi indicanti ospitalità: non la pura permanenza in un luogo, ma accoglienza, ospitalità e comunione fra persone.
«in»: la preposizione (la più frequente di tutte, 2713 volte nel NT) denota l’interiorità della presenza dello Spirito. L’assistenza dello Spirito non è esteriore ma interna ed invisibile (en humin).
Decisamente l’evangelista Giovanni non è per i toni sfumati, ama piuttosto le contrapposizioni; nel suo modo di vedere il processo della fede, e quindi il comportamento dell’uomo di fronte alla rivelazione (accettazione o rifiuto), non è attento alla complessità delle realtà umane e della storia (psicologia, evoluzione, buona fede o altro). È drastico-. sottolinea l’assoluta necessità di aprirsi a Dio e il rischio totale e definitivo del rifiuto.
v. 18 «non vi lascerò orfani»: Gesù si paragona ad un padre, di cui i discepoli sono figli; è un uso attestato nella tradizione rabbinica. Gesù stesso, nel contesto dell’ultima cena, aveva chiamato i discepoli «figlioli» (teknia: 13,33).
«ritornerò»: il ritorno, di cui Gesù parla è in primo luogo la Resurrezione, anche se questo fatto è rimediato alla luce di una presenza continua (l’esperienza delle apparizioni fu temporanea), che toglie per sempre gli apostoli dallo stato di «orfani».
v. 19 Anche in questo versetto l’evento futuro, cui Gesù fa riferimento è la resurrezione. Il mondo non potrà vedere Gesù perché non ha fede; egli ha in sè la vita, per questo risorgerà ed è il fondamento della nuova vita dei discepoli.
v. 20 «In quel giorno »: questa espressione, nella letteratura profetica indica il tempo escatologico (cfr Am 9,11; Os 2,20; Mt 24,36; ecc.); Giovanni per l’escatologia futura ha una sua propria formula: «nell’ultimo giorno» (6,39).
L’escatologia, futura nei profeti, diventa presente nel Signore risorto.
«voi saprete (riconoscerete)»: quando avverrà questo, tra poco, si tratta dell’«ultimo giorno», allora lo Spirito farà conoscere che Cristo sta nel Padre, con cui forma una Realtà Unica (cfr 17, 21.23).
È la reciproca dimora, lo stato finale della beatitudine divina promessa a tutti gli uomini, e resa così possibile
v. 21 Il discorso è circolare e si chiude tornando all’inizio (cfr v. 15): il Signore ripete sotto altra forma il rapporto tra comandamenti ed amore verso di lui.
È il principio generale della vita cristiana: possedere e conservare i suoi comandamenti, questi, e solo questo è amare lui (cfr. 1 Gv 5,3).
L’amore per il Figlio è trasformante; chi ama il Figlio diventa come il Figlio ed il Padre li amerà dello stesso amore. Come si è detto già a proposito del versetto 15, con il quale il v. 21 fa inclusione, c’è un legame tra l’osservanza dei comandamenti e l’amore. Giovanni non intende dire che l’amore di Dio sia condizionato dall’obbedienza dell’uomo; egli concentra piuttosto l’attenzione sulla necessità di corrispondere all’amore del Figlio di Dio.
Poiché l’amore spontaneo di Dio si esprime nel dono del Figlio, se ci si allontana dal Figlio si rimane privi dell’amore di Dio. Al contrario, chi ama il Figlio diviene una sola cosa con lui e sarà perciò oggetto dell’amore del Padre, e non solo dell’amore del Figlio.
Il nostro testo riguarda il presente e il futuro dell’amore (agapàó ripetuto per 4 volte).
«Colui-che-mi-ama»: (ho agapón me) diviene quasi una nuova definizione del discepolo. Il passaggio alla terza persona vuol fare dell’esperienza del discepolo un principio generale valido per tutti i cristiani, che potranno così, vivendo essi stessi dell’amore trinitario, godere di una manifestazione speciale del Figlio.
«emphanízō»: (cfr. Gv 21,1), qui al futuro in parallelo con agapàó, è ben tradotto con «manifestare, rendere visibile». Tale manifestazione denota pertanto una conoscenza che accompagna l’amore che supera la sola dimensione fisica, per diventare esperienza globale della relazione interpersonale nella Trinità e nella Chiesa.
II Colletta:
O Dio, che ci hai redenti nel Cristo tuo Figlio
messo a morte per i nostri peccati
e risuscitato alla vita immortale,
confermaci con il tuo Spirito di verità,
perché nella gioia che viene da te,
siamo pronti a rispondere
a chiunque ci domandi ragione
della speranza che è in noi.
Per il nostro Signore...


Abbazia Santa Maria di Pulsano
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