CARLA SPRINZELES,Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno A)

Commento su Deuteronomio 8,2-3; 14-16; Matteo 5,2.43-48
Carla Sprinzeles  
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Anno A) (18/06/2017)
Vangelo: Mt 5,2.43-48 
Amici, questa festa è stata introdotta nel Medioevo, nel secolo XIII, quando ci fu un fiorire
straordinario del culto eucaristico anche al di fuori della celebrazione comunitaria dell'Eucarestia. Ci furono eventi miracolosi.
Cerchiamo di capire cosa significhi "sacramento". E' un gesto "sacro", nel senso che rende possibile un rapporto con la forza fondamentale della nostra vita. E' necessaria la nostra fede perché il rito che celebriamo, le parole che diciamo, rendano possibile il rapporto: senza fede non è possibile la relazione e la fede è una scelta, io scelgo di credere.
L'Eucarestia non è un miracolo, è un sacramento, cioè un gesto simbolico attraverso il quale noi, esercitando la fede, entriamo in relazione con la forza della vita che ci alimenta e ci fa crescere come figli di Dio. E' sacramento di presenza. Più che presenza spaziale è presenza reale e mi spiego.
La gente che è presente in un autobus, può essere un esempio di presenza spaziale, ma è molto esteriore. Nell'ostia non c'è il sangue e Gesù stesso adesso non ha il sangue, la condizione di risorto non è la nostra condizione. Il sangue della croce non c'è più, è stato sparso, donato.
Come le onde elettromagnetiche della radio o della televisione, rimangono onde elettromagnetiche ma trasmettono un messaggio, trasmettono amore, trasmettono sofferenza, trasmettono emozioni. Così quando viviamo insieme il rito sacramentale, c'è la componente della fede, per cui esprimiamo il nostro abbandono fiducioso in Dio, attendiamo la sua venuta, entriamo in rapporto con la sua azione. E' un rapporto reale, ma non spaziale, non legato ad una realtà presente qui nello spazio, ma presente attraverso il rapporto che stabiliamo nella fede, che è molto più profondo e reale di quello che si stabilisce nello spazio.
Quello che sollecitava Gesù era la fede in lui, perché il suo messaggio e il suo stile di vita che proponeva era sconvolgente: chiedeva di amare tutti, di perdonare sempre, di giungere persino ad amare i nemici, chiedeva di portare il male degli altri. E lui viveva quello che insegnava.
Il pane e il vino sono simboli, ma perché ci sia sacramento ci devono essere gesti di uomini, il gesto sacramentale è il mangiare insieme, è lo scambiarci doni di vita, cioè esprimere il dono di Dio in noi: "Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Amatevi gli uni gli altri." Quando celebriamo l'Eucarestia dovremmo poter dire: "Come il Padre ha amato me." ciascuno di noi: il padre e la madre nei confronti dei figli; la moglie e il marito reciprocamente; gli amici tra di loro, dovrebbero poter dire: "C'è in gioco nella mia vita un Amore più grande, c'è una Presenza immensa, che dono agli altri!"
DEUTERONOMIO 8, 2-3; 14-16
Nel Deuteronomio è ricordata la processione, il lungo cammino - quaranta anni -attraverso il deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti e scorpioni, terra assetata e senza acqua. Ricordare quanto si è vissuto significa anche interpretare alla luce della fede le lezioni divine. Quando si è umiliati e provati dalla vita, non si è lontani da qualche sorprendente esperienza di Dio provvidente e originale nei suoi interventi: come capitò allora al popolo di Dio, dissetato con acqua sgorgata dalla roccia e nutrito con "manna dal cielo".
Il capitolo 8 di Deuteronomio è uno stupendo doppio canto: il canto del deserto e il canto della terra. Si rappresenta Dio nel deserto come l'educatore, che dà da mangiare a questo piccolo popolo impaurito; gli fa succhiare il miele dalla roccia; gli dà la crema di latte, gli dà il sangue dell'uva. Dio non lascia mancare nulla. Prima di attraversare il Giordano, per entrare nella terra di Canaan, "la terra promessa" dal Signore ai patriarchi, sul monte Nebo, c'è l'esortazione di Mosè. Per quarant'anni nel deserto era stato Dio medesimo a non fare mancare al suo popolo pane, la manna, di cui nutrirsi e acqua per dissetarsi. Il benessere della terra promessa, finalmente raggiunta, potrebbe ora tentare Israele di prendersi l'autonomia da Dio, peccando di orgoglio, come se tutto fosse frutto della propria abilità e del proprio lavoro. Un orgoglio e un'autonomia che non rendono felice l'uomo, bensì lo riducono in solitudine, avendo spento la sua relazione con Dio.
I "deserti" di Dio non fanno perdere la fede in Dio; lo fanno invece sentire più vicino. Importante è cercare ciò che veramente nutre e disseta l'uomo, ben più che un presunto "benessere"! il pane e la parola che vengono dal Signore.
La terra promessa non è un luogo della geografia, è l'unità del genere umano. Questa terra promessa ci è stata promessa da Dio e noi ci nutriamo non soltanto dell'amaro pane della nostra tribolazione, ma di ogni parola che viene dalla bocca di Dio. Credo a questa unità del genere umano perché la mia volontà fa fulcro sulla parola di Dio. Avverrà attraverso una reciprocità di impegno tra il Dio che è immerso nella storia e l'uomo che ha risposto. L'io umano e il tu di Dio sono stretti a una stessa responsabilità. L'onnipotenza di Dio non fa a meno della collaborazione dell'uomo. Tocca a noi costruire la nostra unità del mondo.
GIOVANNI 6, 51-58
Il Vangelo di oggi proviene da una pagina centrale del quarto Vangelo, di essa registra la fase più acuta della contestazione dei Giudei nei confronti di Gesù, allorché egli si propone come pane vivo, di cui cibarsi per avere la vita eterna. Nella reazione dei contemporanei di Cristo c'è qualcosa che ricorre anche nei credenti di tutti i tempi: si tende a stabilire di propria iniziativa il tipo di rapporto da avere con il Signore più che lasciarsi attrarre e modificare dalla presenza di lui, dalla sua azione sorprendente e dalla Parola che rivolge a tutti. C'è in questo Vangelo un richiamo forte alla reale presenza di Gesù nella nostra storia e nella vita personale di chi lo accetta.
I toni realistici usati da Giovanni provocano in ordine alla fede: non si tratta di una semplice conoscenza intellettuale e neppure di un vago ricordo storico, ma di una "carne" da fare propria. La persona di Gesù è continuamente "data per noi", e solo l'accoglienza può trasformare la nostra esistenza in "vita -qualitativamente- eterna"!
Gesù non ci impone il suo amore, non è invadente, ma si offre alla nostra fame, alla nostra solitudine, alla nostra fragilità. La sua persona è cibo, pane spezzato, carne e cuore lacerati dall'amore che porta all'umanità. Abbiamo tanta fame di amore, di sicurezza, di felicità, di verità, ma anche di potere e di possesso, di piacere e di vendetta: Cristo, fonte d'ogni bene, si dà da mangiare, vera medicina di vita autentica.
Creati a immagine di Dio, siamo plasmati dalle potenzialità straordinarie, racchiuse in questa presenza divina nascosta, che costituisce il nostro essere. Ma siamo impastati anche con la negatività, quella ereditata e quella patita lungo la nostra vita. Importante è assumere le conseguenze della nostra negatività e smettere di accusare gli altri. Ricevere il Corpo di Cristo senza questa scelta di amore orientata al bene, è come mangiare un bene ucciso, è veramente mangiare la nostra condanna.
Siamo invitati ogni domenica alla tavola del Signore: ci sazia il bisogno di un cibo che veramente ci nutre, ci troviamo insieme ai fratelli per comprenderci e accoglierci, per sostenerci e perdonarci.
Il Corpo di Cristo ci fa diventare più simili a lui, noi diventiamo pane per gli altri!
Fonte:http://www.qumran2.net

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