Paolo Curtaz, Christus vincit (?) XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento al Vangelo del 26 Novembre 2017
Christus vincit (?)

E così oggi concludiamo l’anno liturgico. Dalla prossima settimana inizieremo il cammino di avvento
in preparazione al Natale. Ci prepariamo ad accogliere l’evangelista Marco e a salutare Matteo.
Il quale, prima di congedarsi, ci lascia una pagina che è una frustata, un pugno nello stomaco, un zampata in pieno volto, così, tanto per scuotere le nostre coscienze intorpidite di innocui cattolici da poltrona.
Prima, però chiariamo una cosa: la Chiesa non ha nostalgie monarchiche e non dobbiamo guardare ai (pochi e incoerenti) regnanti di questa terra per prendere esempio. Dire che Gesù è il Signore dell’Universo, è una destabilizzante testimonianza di fede: quell’ebreo marginale perso nelle pieghe della storia è colui che ha l’ultima Parola, colui che dà misura e senso ad ogni esperienza umana, che svela il mistero nascosto nei secoli.
Meglio.
Significa credere che le vicende umane non stanno precipitando in un baratro di violenza e di caos, ma nelle braccia di Dio. Ci vuole molta fede per fare una tale affermazione, ve ne dò atto, soprattutto dopo duemila anni di cristianesimo in cui le cose non sembrano cambiate in meglio.
Dire che Cristo è “sovrano” della mia vita, significa riconoscere che solo in lui ha senso il nostro percorso di vita e di fede.
Ed è bello, alla fine di quest’anno, ribadire con forza, insieme, questa nostra convinzione.
Ma.

Regalità

Leggendo il vangelo conclusivo di Matteo restiamo sconcertati ed interdetti.
Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile come alcuni pittori ce l’hanno riportata, il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina, ad esempio, fa paura. Cosa ha che vedere questa pagina con il resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci siamo sbagliati noi quando continuiamo a professare il volto di un Dio compassionevole?
I pastori, sul fare della sera, separavano le pecore dalle capre.
Le capre, senza il “cappotto” fornito da madre natura, pativano il freddo proveniente dal deserto ed andavano ricoverate in un posto più caldo, come una stalla o sotto una roccia.
Quest’immagine è lo sfondo del racconto di Gesù, una separazione che è una protezione, un’attenzione verso i soggetti deboli.
Il pastore accoglie le pecore che lo hanno riconosciuto nel volto del povero, del debole, del perseguitato. Era prassi comune nel mondo ebraico, ma ne troviamo traccia anche in altre culture!, valorizzare i gesti di compassione verso i deboli.
Due sono le novità apportate dal vangelo di Matteo: Gesù lascia intendere che è lui che curiamo nel povero, identificandosi nell’uomo sconfitto. In secondo luogo questa identità è sconosciuta al discepolo che resta stupito nell’avere soccorso Dio senza saperlo.
Il messaggio che Matteo ci rivolge è piuttosto chiaro: l’incontro con Dio cambia il tuo modo di vedere gli altri, riesci ad incontrarlo anche nel volto sfigurato del povero.
Gesù non parla di “buoni” poveri o di carcerati vittime di un errore giudiziario! Anche nel povero che ha sperperato tutto per colpa o nell’omicida (!) possiamo riconoscere un frammento della scintilla di Dio!

Ripetizione

Gesù ripete la stessa idea, ma in negativo, questa volta.
Come era consuetudine per i rabbini, che sempre ribadivano il proprio insegnamento una volta in positivo e una volta in negativo. Per calcare la mano Gesù conclude che colui che non lo riconosce brucerà nel fuoco della Geenna.
Lasciate perdere le immagini orribili dell’inferno e il timore di Dio che non è paura del Padre ma paura di perdere il suo amore per nostra negligenza!
La Geenna è una delle valli che circonda Gerusalemme, mai abitata perché, secondo la storia, lì i Gebusei praticavano sacrifici umani prima della conquista della città da parte del re Davide. Al tempo di Gesù nella valle della Geenna si bruciavano le immondizie.
Se non sappiamo riconoscere il volto di Dio nel fratello siamo… ‘na monnezza!

Quindi

Alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà che succederà?
Lo trovate scritto, leggete bene, e mettete da parte il taccuino su cui avete segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni sopportate con cristiana rassegnazione e le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quello che ci raccontavano.
Il Signore ci chiederà se lo avremo riconosciuto, nel povero, nel debole, nell’affamato, nel solo, nell’anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene.
Il giudizio sarà tutto su ciò che avremo fatto. E sul cuore con cui lo avremo fatto.
La fede è concretezza, non parole, la preghiera contagia la vita, la cambia, non la anestetizza, la celebrazione continua nella città, non si esaurisce nel Tempio.
Allora, certo, la preghiera, l’eucarestia, la confessione, sono strumenti di comunione col Cristo e tra di noi per fare della nostra vita il luogo della fede.
Nel mio ufficio, alla mia facoltà, in casa a spadellare mi salverò. Se saprò portare la fede da dentro a fuori, da lontano a vicino, e riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto del fratello che incontro ogni giorno, mi salverò.
La regalità di Cristo, oggi, si manifesta nei nostri gesti.
Cristo è Signore se sapremo sempre di più amare i fratelli, diventare trasparenza della misericordia, testimoni credibili della compassione.
Cristo vince se l’amore trionfa. Anche nella mia vita.

Fonte:http://www.tiraccontolaparola.it/


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